Veneziani racconta amore e guerra civili

Vorrei raccontarvi una storia dolce e cruenta, tragica e lieve. E vera. Mi telefonò un’anziana signora, presentandosi come profuga giuliana e chiese di incontrarmi perché voleva darmi dei documenti sulla guerra civile del ‘45.

Chiese d’incontrarmi di mattina, perché così sarebbe sfuggita al controllo di figli e nipoti, mi disse col tono complice di un’adolescente. Ci incontrammo in un caffè. Stringeva tra le mani il giornale su cui scrivo, come un segno di riconoscimento e forse di riconoscenza, e tradiva una cordiale emozione, trattenuta dal garbo di una stagionata educazione.

Subito raccontò la storia che le gonfiava il cuore. Si era sposata assai giovane e suo marito, istriano, era morto combattendo in Africa, lasciandola vedova precoce con un bambino. In sua memoria, un nipote, poi divenuto celebre, Uto Ughi, fu chiamato col suo nome inconsueto.

Mi mostra la foto della lapide dove è sepolto suo marito; è scritto tenente, ma lui fu nominato capitano, ci tiene a dire. Lei aveva trovato lavoro al Comune.

Nel 1945 vennero a prenderla da casa i partigiani comunisti, con l’accusa di aver rifiutato di falsificare carte d’identità e carte annonarie dei gappisti. Non si era rifiutata per ragioni politiche, mi dice fissandomi con i suoi occhi di cielo, ma perché era stata educata a rispettare la legge.

Quando i partigiani se la portarono via, finse allegrìa per non impressionare il suo bambino che aveva poco più di otto anni. Se ne andò ridendo, quasi partisse per una scampagnata.

Fu chiusa in una casa insieme a sua sorella e ad altre ragazze, accusate di essere le morose di alcuni soldati repubblichini. Sa, erano bei giovanotti in divisa, mi sussurra, che c’entra il fascismo. Al piano di sotto erano invece detenuti i ragazzi.

La sera sentiva gridare per le torture, mi dice mentre le sue mani tremano e il suo cappuccino deborda dalla tazza. Anche le sue compagne di stanza subivano sevizie: bruciavano loro i capezzoli con la candela e altro…

In quei giorni arrestarono pure suo padre e avevano deciso di giustiziarlo: sa, era un imprenditore. Il suo bambino in bicicletta portava da mangiare a sua madre, a sua zia, a suo nonno in prigione. Neanche nove anni e una famiglia a carico…

Ma a lei non fu torto un capello e a suo padre fu risparmiata la vita. Andò bene perché il capo dei partigiani si era innamorato di lei. “Quella volta ero carina, sa?”. Mi colpisce l’espressione che usa e lo sguardo improvviso di giovinezza che l’accompagna.

Quella volta, come se parlasse di un tempo mitico, di un’altra esistenza, o di un interminabile giorno sottratto alla furia dei giorni. E si definisce carina, non bella, con una smorfia di pudore e vanità; bella, sarebbe troppo presuntuoso.

Quella volta ero carina, come a voler limitare la bellezza solo a un evento, a una situazione. Invece rintraccio nel suo volto i segni superstiti di una vera bellezza. “Civettando con lui, salvai la vita a mio padre”. E a se stessa: le altre ragazze infatti non tornarono a casa.

Mi dà una copia dell’ordine di scarcerazione, firmato con la stella a cinque punte, uno slogan e l’autografo del comandante, suo ammiratore.

Con l’epurazione persero tutto, la loro casa, le loro proprietà, la loro terra. Lasciarono il loro paese. Anni dopo tornarono nella loro terra e la trovarono abitata dagli sloveni. Avevano costruito sul loro giardino otto palazzine ma avevano lasciato alcuni alberi.

C’era ancora un albero di loti che avevano piantato lei e sua sorella, da ragazze. Lei cercò di cogliere un pomo dall’albero. Fu scoperta e allontanata con durezza dai nuovi proprietari. L’albero dell’adolescenza aveva ormai frutti proibiti. A volte si diventa ladri in casa propria, per amore del tempo perduto.

Il suo racconto finisce con il suo cappuccino. Restano di entrambi le ultime tracce di schiuma sui bordi. In fondo non aveva documenti da darmi, nessuna grande storia da rivelare.

Voleva solo raccontare la sua vita, la bellezza dei giorni che furono, il dolore per le vite strappate, il travaglio e l’esodo, la memoria solare di un albero di cachi del suo paradiso perduto. Voleva dire, c’ero anch’io, ho vissuto anch’io ai bordi della storia; voleva lasciare a qualcuno una traccia discreta dei suoi giorni remoti, prima che venga la sera.

Ma mi pregava di non pubblicare il suo nome, non voglio comparire, non voglio creare problemi e imbarazzi ai miei nipoti… No, signora, non c’è bisogno del nome. Lei ha raccontato la storia di un’italiana, come tante, come tanti. Storie che nessun regista, nessun narratore mai racconterà, anche perché vissute dalla parte sbagliata.

Eppure ha ingentilito l’orrore con la piccola storia di una santa civetteria, che ha fatto riscoprire l’umanità anche nel furore. Quel che al gappista era apparso probabilmente un cedimento di cui vergognarsi, era stata forse la sua azione migliore.

Lei non serbava odio; al più si notava negli occhi, nella voce e nelle mani tremanti un filo residuo di paura. Ma è inutile piangere sul latte versato, sembrava dire davanti alla sua tazza galleggiante nel piattino; prevaleva la pietà e la tenerezza e il desiderio di confidare a uno sconosciuto il sapore dei suoi vent’anni.

Aveva voglia di raccontare una storia finita bene, una vita passata indenne tra le atrocità per un filo d’amore, o forse solo di sesso. Da queste pause, a volte, è addolcita la storia.

E già, la bellezza salverà il mondo: forse non è vero, forse non questo mondo. Ma la bellezza salvò una ragazza e suo padre, suscitando una spuma d’amore in piena guerra civile.

MV, da Il segreto del viandante, Mondadori, 2003

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