Totò, politico del dis-senso
VOTANTONIO… VOTANTONIO… VOTANTONIO… TOTO’ (affacciandosi al condominio armato di megafono) Votantonio… Votantonio… Votantonio… Italiani! Elettori! Inquilini, coinquilini, casigliani! Quando sarete chiamati alle urne per compiere il vostro dovere, ricordatevi un nome solo: ANTONIO LA TRIPPA. Italiano! Vota ANTONIO LA TRIPPA! Italiano! Vota LA TRIPPA!!!
UNA VOCE DAL CONDOMINIO: Sì, al sugo!!!!!!
TOTO’ (fra sè) Brutto mascalzone, figlio di… (Col megafono) Italiani! Italiani! Votantonio… Votantonio… Votantonio… Inquilini, coinquilini, condomini, casigliani! Quando andrete alle urne per compiere il vostro dovere votate la lista PNR, Partito Nazionale Restaurazione. Scegliete un numero solo che è tutto una garanzia, tutto un programma: 47…
UNA VOCE DAL CONDOMINIO: …morto che parla!!!!!
TOTO’: E fesso chi non sta zitto!!! (Fra sè) Ma guarda che numero che mi hanno dato…
Lo scambio è tratto dal film “Gli Onorevoli” del 1963 e riassume in poche righe tutto il ‘pensiero politico’ di Antonio de Curtis, ben rappresentando il Totò-politico tout court. Che c’entra un attor comico -per quanto grande- con l’arte di governo? C’entra, c’entra eccome. Anzi, meglio, c’azzecca e ci sta tutto fin dai tempi del commediografo greco Aristofane, altrimenti non si capirebbe nemmeno come mai oggi coloro che praticano satira politica siano tra i maggiori oppositori dell’establishment, i più temuti critici della società, i più strenui dissenzienti rispetto a una sempre più diffusa uniformità di pensiero.
Si pensi ai comici teatrali e televisivi come Maurizio Crozza e Daniele Luttazzi, passando per Corrado e Sabina Guzzanti, per non parlare di Antonio Albanese che, con il suo Cetto La Qualunque, ha preconizzato la strampalata odissea di un indegno candidato elettorale dalle promesse esilaranti (“Chiù pilu pe tutti!”). Anche i giornalisti d’inchiesta non disdegnano i toni sarcastici e mordaci, dall’arguzia alla beffa: il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, tiene una rubrica il lunedì che s’intitola Ma mi faccia il piacere, in omaggio al comico napoletano. Per non parlare dei vignettisti, deputati a confezionare per immagini strali contro la cattiva politica; un cimento in cui si esercitano quasi quotidianamente artisti come Altan e Vauro, Elle Kappa e Staino, per fare solo qualche nome.
Trasformatosi nel prototipo dell’aspirante deputato, Totò incarna magistralmente in questo film dei primi Anni Sessanta lo spirito post fascista nel solco che fu dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, non a caso anche lui partenopeo. Mentre ai giorni nostri il riferimento più immediato che viene in mente è piuttosto all’Italiano Medio del film di Maccio Capatonda. Libero da remore morali e pensieri troppo faticosi, che rappresentano un carico pesante e superfluo, pertanto, assai poco consono alla sua schietta semplicità, Antonio La Trippa è tutto nel suo nome (e cognome).
Un appellativo, quello riferito al grasso, che comporta oneri e onori, indicando perfettamente quale metamorfosi negativa avvenga, talvolta, nel difficile passaggio da cittadino ad amministratore e per giunta della specie più vorace: quella di colui che magna e fa magna’. E che, di conseguenza, tira anche a campa’, come si dice a Roma, chiudendo un occhio e forse tutti e due su quello che non vuole vede’, avrebbe aggiunto un altro grande delle comicità italiana, l’Albertone nazionale.
«Ignobile portinaio da strapazzo! Come ti permetti di chiamarmi in tale guisa? Io sono il neo-onorevole La Trippa, Cavaliere Antonio! Capito!?». Così il pochissimo onorabile La Trippa richiama all’ordine il portinaio dello stabile, ristabilendo fuor di metafora quella distanza siderale che esisteva – e tuttora esiste – tra politica e società civile. Nonché ribadendo l’intoccabilità dovuta al proprio considerevole rango, come se il parlamentare fosse iscritto a un ordine particolare di superuomini a seguito dell’esercizio di un mandato elettivo. Di quanti Antonio La Trippa traboccano anche oggi le liste elettorali? Di sicuro troppi.
«Votantonio, Votantonio, Votantonio, Votantonio!» è lo slogan che il nostro ripete per tutto il film come un mantra. Ci si appiglia come a un sortilegio magico, alla recitazione sconnessa di un rosario per scongiurare la sconfitta, l’indifferenza, per allontanare il nulla, ma anche per ribadire, con ostinazione pervicace e quasi cieca, la bontà della propria iniziativa. E’ il metodo del ‘lavaggio del cervello’, termine che adesso chiamiamo più elegantemente persuasione occulta, attuata magari mediante stimoli subliminali che vanno a sollecitare l’inconscio (qualcosa che attiene a… laggiù, insomma, che vellica stomaco e pancia).
Il discorso politico è – per sua stessa natura – suadente e persuadente, come vuole la retorica. Tutt’altra cosa del discorso comico, che qui entra in azione grazie a degli strumenti del tutto inadeguati, usati da Totò come armi improprie: un imbuto di latta trasformato in megafono (evviva il tecnicismo!) e luoghi altrettanto inadatti, la finestra del bagno di casa al posto del balcone di altri – ben più grandi e potenti di lui – che gli fanno da contraltare. Una legge del contrappasso (meglio forse del contrabbasso, tanto per essere più vicini al lessico immaginifico del principe de Curtis) che vuole il contrasto stridente tra l’alto della politica – il comizio alato – e il basso del basso napoletano – il comizio dal cesso casalingo – condito dagli aromi familiari di trippa e sugo, che sentiamo salire ai piani superiori.
Una vera epifania della democrazia di pancia o del mal di pancia, provocato dalle tante abbuffate nostrane più vicine al copione di un film, che alla realtà. Il futuro onorevole viene immediatamente ‘scoperto’, ancor prima della sua resistibile ascesa, e additato come il re che “è nudo”. Perciò, altrettanto immediatamente, è sfottuto dai suoi simili, gli inquilini e coinquilini del palazzo da cui si affaccia per i comizi preelettorali. Che non è il Palazzo, ma è un palazzo qualsiasi, simbolo dell’italianità media e contro-simbolo di quel luogo deputato della politica dove si svolgono affari spesso oscuri, che tuttavia sono fin troppo chiari a tutti. Perfino a lui, perfino agli italiani e agli elettori, ossia agli inquilini e coinquilini che abitano la realtà di tutti i giorni.
Un mondo senza commistione alcuna rispetto a quello che orbita di solito intorno alla politica, tranne che in un caso particolare, la truffa. Che viene esperita tanto di qua, quanto di là, in tutte le possibili sfumature e varianti: dal millantato credito alla fregatura bella e buona; dalla ruberia di ciò che è pubblico all’appropriazione indebita e così via. Secondo una logica semplice ed efficace che distribuisce equamente ‘a ognuno il suo’: se sei un turista ti vendo il Colosseo, se sei un romano ti vendo una patacca amerikana.
Uno di questi casigliani di toscanissima memoria perché Totò è sempre molto colto sotto la maschera da Sommo Ignorante, nel senso di colui che ignora, il finto idiota che smaschera le balle vere del suo interlocutore- risponde infatti all’appello megafonato di Antonio La Trippa. “Sì, (la trippa) al sugo!!!”. Riportando subito a terra lo scambio verbale in un quadro che più preciso non si può, neanche con il pennello. Per la serie del parla come mangi, ma anche del mangia-mangia delle corruttele e dei fenomeni di cattivo governo che tengono sempre banco sulle pagine di cronaca italiana.
Il dialogo in due battute, anzi quattro battute, come quello dei suoi illustri predecessori commediografi e teatranti, da Petrolini ad Achille Campanile, è davvero fulminante. Orchestrato con tempi comici rapidissimi di botta e risposta: non si sbaglia, non si sgarra. A ‘uno’ corrisponde ‘due’, in unò-duè, unò-duè da marcetta. Un doppio movimento scandito che ricorda il suono secco di un meccanismo che scatta. E’ la declinazione del comico del discorso e l’articolazione del discorso comico, in cui è premiante soprattutto la sorpresa e la velocità.
Bisogna parlare prima ancora che l’altro dialogante comprenda, fino in fondo, quello che stiamo dicendo e, in specie, ciò che si accinge a dire lui stesso! E quando ha appena finito di dirlo, ahimé, è ormai troppo tardi… La trappola è scattata, dopo che è stata spinta la molla fino allora segreta, nascosta subito sotto la superficie di una conversazione stucchevole e inconsistente.
D’improvviso ci si ritrova prigionieri del senso comune e, contemporaneamente, della stupidità propria e altrui. Se la propria era voluta, per cui ne siamo consapevoli, l’altrui era celata e ci risulta sorprendente. Il contrasto corrisponde a un doppio passo di danza, come in un elegante minuetto. Parte la risata perché quella doppia imbecillità viene rivelata davanti a tutti come una scoperta improvvisa. Signori, su il sipario!
Si ride, liberandosi dalla paura, ci si affranca da se stessi, dai comportamenti errati, dal timore di quella piccola morte che il riso incentiva e, subito dopo, sapientemente occulta. Assecondata dal detto popolare che parla in maniera esplicita di “morir dal ridere” o anche di “ridere a crepapelle”.
Tanto che alla fine viene da chiedersi: ma – mutatis mutandis, ossia come potrebbe sostenere Totò, cambiate le mutande – si è davvero trasformata la politica italiana negli ultimi cinquant’anni? Cari signori, anzi cari casigliani, berh, questa volta scrivo cari pugliesi o meglio cari biscegliesi domandatevelo anche voi e datevi una risposta.
Antonio La Trippa, nato a Roccasecca è monarchico come Totò (di simpatie monarchiche) e non si discute. Oggi chissà cosa sarebbe, viene da chiedersi: un pentastellato, un non votante in aristocratico ritiro? Forse per questo, memore del bel tempo andato di casa Savoia, tormenta militarmente i condomini suonando la carica e urlando i suoi sciocchi slogan. Ma quando si avvede dei loschi fini dei dirigenti del suo partito rivela alle persone che assistevano al comizio le losche trame, mandando a monte anche la propria elezione.
Perché l’onestà potrà anche non pagare, però serve. Almeno nel caso di Totò, la cui candida ingenuità (scusate, ma “a che serve la serva se non serve?” come vuole un celebre scioglilingua da lui recitato a menadito) riscatta qualsiasi tentativo preventivo di raggiro, qualsiasi meschinità e piccineria anche solo accennata all’origine. Lo fa grande in virtù di meriti speciali.
Un grande ingenuo, un fesso: così ama definirsi il principe De Curtis; però sincero e di buon cuore come buona parte degli italiani. Lavoratore e onesto. Basterà questo ad assicurargli un posto in Paradiso? Pensiamo di sì, se non altro per gratitudine. Perché ci ha insegnato a essere più liberi, a esercitare il nostro spirito critico senza timori e servilismi. La sua non è la lezione gattopardesca dell’è cambiato tutto/non è cambiato nulla, i tempi sono sempre uguali, la politica è una cosa sporca.
La comicità e lo stile inimitabile di Totò sono da iscriversi piuttosto nel segno della perenne disubbidienza, della mancanza di allineamento, dello sfottò, del pernacchio sonoro e fatto di (cattivo) gusto. Invitano a ragionare con la propria testa. Non sempre si tratta solo di “semplice buon senso”, ma spesso è anche solo “puro buon senso”.
Oggi affermeremmo che Totò è di destra, nella continua diatriba che tanto ci appassiona da anni, pur avendo – nel frattempo – smarrito quasi ogni orientamento su ciò che è di destra e ciò che è di sinistra, e forse proprio per questo. Oppure che è un qualunquista, pescando da un altro tipo di ragionamento, quello populista, proposto da alcuni rappresentanti del M5S, della Lega e dell’estrema destra e da un PD oramai sulla strada di una Caporetto senza riscatto di un 4 novembre. Però qualsiasi schema di pensiero politico in cui tentiamo di infilare Totò resta riduttivo, senza spiegare a sufficienza né lui, né la sua arte.
“La mia tendenza politica? – afferma lui stesso risolvendo ogni incertezza al riguardo – Liberal-social-democratico-monarchico-repubblicano”. Cioè, potremmo sintetizzare, un po’ di tutto fuorché comunista anche perché del glorioso PCI sono rimaste poche frattaglie. Seppure, in virtù dello spirito di bastian contrario che lo spinge di continuo in avanti, è il primo a commentare, strizzando l’occhio furbetto: “Poi dice che uno si butta a sinistra!”.
A una più attenta rilettura, dunque, Totò dimostra come l’uomo-e-l’attore, tutt’uno in questo caso, siano stati a loro modo ‘rivoluzionari’. E non loro malgrado. Il messaggio di Totò, attraverso il suo continuo sberleffo a ogni potere costituito, al vedere il mondo attraverso gli occhiali (rosa) del mainstream, è come un sasso lanciato in uno stagno, in grado di creare dei cerchi sempre più ampi. Oppure come la pietra che Davide lancia con la fionda contro Golia. Un’arma piccola ma potente, in grado di colpire e perfino abbattere qualcosa di dimensioni molto superiori alle proprie. Perché apre una crepa in una visione compatta e scontata, insinua un dubbio talmente profondo nel conformismo imperante che non ci abbandona più.
Totò fa politica del dissenso, dissentendo da tutto fuorché dalla propria arte, e fa ancor di più politica del dis-senso, nella duplice accezione di controcorrente e di una disarticolazione del senso comune che contiene un plus, una vera e propria eccedenza di significato. Riuscendo, in tal modo, a conferire una pregnanza inaspettata a frasi e parole altrimenti assolutamente banali, trite e viete. Sesto senso e sensibilità non gli fanno certo difetto anche nei momenti più surreali, quando si esercita nella comicità dell’assurdo, irriverente e maramaldo oltre misura, innescando una girandola di puro dispendio emotivo e creativo.
Basti per tutti ricordare uno dei grandi interrogativi teleologici che ci ha lasciato in eredità: “Insomma, siamo uomini o caporali?”. E la risposta è che siamo uomini e caporali. Occorre solo decidere quale parte di noi vogliamo far prevalere.
PASQUALE STIPO