Un ricordo di “Peppène u preis” descritto da Giuseppe Selvaggi
Nel mio libro “Milano e il mare dentro. Sopravvivere alla metropoli” ho dedicato un passaggio a questo mio poco fortunato concittadino.
Era una figura leggendaria.
Quando passava in tanti sorridevano e i ragazzi lo canzonavano.
Io non sono mai riuscito a divertirmi, vedevo un’anima in pena che recitava una parte che gli consentiva di essere riconosciuto e riconoscibile, che pur allontanandolo da quelli “buoni” lo faceva sentire parte di quella stessa collettività che si prendeva gioco del suo essere non proprio tutto a posto, ma, appunto per questo parte integrante della stessa comunità.
Si chiamava Peppino, tutti lo chiamavano “Peppin u preis” e credo pochi sapessero le sue vere generalità, ma a chi importava.
Lo scemo era un individuo che rallegrava la vita dei concittadini urlando e a volte urinando per strada ma non c’era scandalo, glielo si perdonava, in fondo era solo un povero scemo, un adulto con il cuore e la testa da bambino.
Viveva nelle piazze, a volte dormiva sulle panchine, ma a differenza degli accattoni non chiedeva soldi e non accettava nulla da nessuno. Aveva una casa che non occupava mai, le gote di un acceso colore rossastro potevano farlo apparire perennemente ubriaco.
I grandi mi dicevano “stagli alla larga, quello può essere pericoloso” e sicuramente non sarebbe stato bello farsi vedere in giro con quello sciroccato e poco di buono.
Spesso lo osservavo alla distanza, tentavo di capire quali pensieri lo accompagnassero nel suo girovagare senza una meta e quando i nostri occhi si incrociavano vedevo un animale selvatico spaventavo e perso; allora pensavo al suo posto e provavo a interpretare quello sguardo, mi sembrava che volesse dirmi: “prova ad avere un mondo nel cuore e a non riuscire ad esprimerlo con le parole”.
Camminava, perennemente in giro per la città, con entrambe le mani dietro la schiena, l’una che stringeva il polso dell’altra, oppure aveva sotto l’ascella un bastone che agitava minacciosamente in direzione dei monelli che a volte lo facevano segno di lanci di piccole pietruzze e gli facevano il verso.
La sua caratteristica principale era quella di parlottare e borbottare tra sé e sé di svariati e incomprensibili argomenti, parlando di vari vaneggi e inutili inutilità.
Si muoveva apparentemente cercando di passare inosservato, poi, all’improvviso si girava e puntando il primo che gli capitava gli urlava: “cosa siete detto,cosa siete fatto” quasi a cercare una complice provocazione per iniziare ad imprecare e raccogliere il suo momento di notorietà a cui inevitabilmente si arrivava tra ilarità e insulti del popolino. Ricordo il fratello, che spesso arrivava in suo soccorso, era un uomo taciturno che aveva famiglia e pare lavorasse per il Comune, si avvicinava e con gesti risoluti e tranquillizzanti lo prendeva sotto braccio, spesso spingendolo e ripentendo all’infinito “spicciala” (ovvero smettila) e a volte gli accarezzava la testa …. allora guardando i suoi “nemici” si allontanava pronto alla prossima uscita per sfidare il mondo dei normali.
GIUSEPPE SELVAGGI