Il reddito di cittadinanza non risolverà la questione meridionale
Quando si vuole risolvere un problema, uno dei metodi più diffusi, in Italia, è non parlarne più. E’ quanto sta avvenendo con la “questione meridionale”, cioè con il divario crescente tra Nord e Sud. Divario in termini di reddito pro capite, di disoccupazione giovanile, di Pil, di infrastrutture, di fughe di cervelli, di natalità, di qualità della vita e di tanti altri elementi ancora che contribuiscono a misurare il benessere di un territorio.
La questione meridionale non è più in agenda da tempo. Si susseguono i governi ma non pare che il problema sia affrontato di petto. Al massimo, si riconosce che il Ministero per il Sud – che, ogni tanto cambia nome, ora “per il Mezzogiorno”, ora “per la Coesione territoriale” – spetta di diritto ad un meridionale doc.
Anche l’attuale governo giallo-verde nel suo programma, o contratto, non pare che dedichi molta attenzione alla questione e non si vedono ancora all’orizzonte risorse o stanziamenti in grado di ridurre il gap esistente.
Qualcuno potrà obiettare: ma quando sarà erogato il reddito di cittadinanza sarà il Sud il principale beneficiario! E’ questa l’ennesima beffa ai danni del Sud! Se i governi a guida democristiana mettevano a tacere le lagne meridionali con pensioni di ogni genere, anche a chi non ne aveva diritto, ora il “piatto di lenticchie” ha cambiato nome ma la filosofia è sempre la stessa.
Un’elemosina che non risolve il problema del divario tra le due Italie, che non accenna ad attenuarsi. Sarebbe stato di gran lunga preferibile programmare una serie di investimenti e di incentivi agli investimenti in favore del Sud, per far crescere l’occupazione, il reddito, per frenare l’emorragia della nostra gioventù, ma una campagna elettorale in tal senso non avrebbe fatto molta presa e, ancora una volta, il “pochi, maledetti e subito” ha avuto il sopravvento e un consenso quasi plebiscitario.
Nel frattempo il Nord, molto più lungimirante e più abile nel difendere i propri interessi, ha appoggiato le politiche miranti a ridurre le tassazioni per le imprese e continua a perseguire l’autonomia per le sue regioni. L’appuntamento è solo rimandato ma, come per il federalismo fiscale, prima o poi arriverà. Non si chiama più secessione, in nome di quell’unità nazionale che deve rimanere almeno di facciata, ma la realtà ci dice, senza pietà, che esistono due Italie e che non vi alcuna possibilità che il Sud possa un giorno essere alla pari dell’altra Italia.
Chissà se la nostra classe dirigente è consapevole di questa piccola tragedia nazionale. Una situazione che potrà invertire la rotta solo quando sulla scena politica apparirà uno statista del calibro di De Gasperi (1881 – 1954) che, sebbene nato in Trentino, si adoperò come pochi, con la Cassa per il Mezzogiorno (legge 64/1950), per eliminare il divario tra il Nord e il Sud dell’Italia (furono realizzate, tra le altre cose, 16.000 km di collegamenti stradali, 23.000 km di acquedotti, 40.000 km di reti elettriche, 1.600 scuole e 160 ospedali).
Oggi la parola d’ordine è “egoismo regionale”. Il principio di uguaglianza tra i cittadini e la rimozione degli “ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 Cost.) sono diventati un optional, sostituti dai LEP e dai LEA (livelli essenziali di prestazioni e di assistenza) che, introdotti nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione hanno sancito la fine dell’unità d’Italia e codificato il sottosviluppo del Sud.
Pasquale Consiglio