Bisceglie, il Covid con Totò, Peppino e la malafemmina!

Per via del Covid che sta affliggendo la città, in questi giorni di forzata clausura di noi cittadini ho pensato di dedicarmi ancor di più alla lettura: Mi è capitato di leggere un libro su Totò con prefazione di Lello Arena e postfazione di Roberto Escobar, Einaudi 2011. Che dire, un libro fantastico che inevitabilmente mi ha portato a pensare che le gag del mitico De Curtis, non erano battute lanciate solo per suscitare ilarità tra il pubblico, ma vere lezioni di filosofia, di vita, di politica.

Incuriosito ancor di più dal personaggio Totò, ho voluto rivedermi un capolavoro della cinematografia italiana, appunto Totò, Peppino e la Malafemmina di Camillo Mastrocinque e non ho potuto fare a meno di soffermarmi sulla scena della lettera che Totò detta al fratello – in questo caso Peppino De Filippo -. La rilettura della lettera porta inevitabilmente a pensare che già nel 1956 sia stata scritta per la Bisceglie del 2020  e osservando come “fatica” il povero Peppino a scrivere la lettera, arrivando a sudare abbondantemente e ancora come all’inizio scriva in maniera “larga”, poi si accorge che lo spazio  sta finendo e, non pensando per nulla a prendere un altro  foglio, prosegue a scrivere sempre più piccolo, sempre più piccolo e sempre più storto.

Spesso, troppo spesso, bravi ragazzi, persone dai sani principi morali si trasformano in carnefici una volta assunto il ruolo di “autorità”. Totò ha cercato di comunicarcelo attraverso i suoi film, la Psicologia Sociale lo dimostra attraverso esperimenti e ricerche. Il dialogo tra Cinema e Psicologia su temi quali il rapporto d’autorità, la persuasione, l’obbedienza e la disobbedienza è ciò che rende questo testo unico nel suo genere, rendendo i film di Totò opere da leggere e il testo un libro da vedere, per una maggiore comprensione di fondamentali aspetti della vita quotidiana e della natura umana, nell’intento di creare una maggiore consapevolezza sulle dinamiche psicosociali, nella speranza di incontrare sempre più “uomini” competenti e sempre meno “caporali” inaffidabili lungo il sentiero della nostra vita.

Ma torniamo alla nostra realtà cittadina. I mancati avvisi alla città che sarebbe diventata ZONA ARANCIONE, la mancanza di  un comunicato stampa che mettesse al corrente i cittadini e le categoria di ristoratoriportano inevitabilmente alla scena del di quando Totò dice a Peppino: “hai scritto”? mentre si sta sedendo alla scrivania e non ha ancora impugnato la penna per farlo. Bisceglie in una gag: i fratelli Capone stavano scrivendo alla soubrette che aveva fatto perdere la testa all’amato nipote, a noi invece, le notizie dell’allargarsi dei numeri Covid che non arrivano. Ecco dove sta il collegamento tra la scena del regista Camillo Mastrocinque e noi cittadini tenuti all’oscuro di tutto. Subito, sin dall’incipit della gag,  il comico si incista nella dimensione del tempo: il non aver scritto diventa – nel linguaggio funambolico di Totò – un averlo già fatto. Il futuro  – rappresentato dalla nostra autorità cittadina che doveva farlo – entra in cortocircuito con il passato. Qualcosa non ha funzionato in tempo, fa crrash.

Nella sua emblematica evidenza, la gag dichiara esplicitamente il segreto del tempo comico di Totò e Peppino: la sua natura compromissoria, il suo derivare di una continua tensione tra l’essere avanti e l’essere indietro, il suo darsi come tempo vuoto dentro l’attrito fra un non esserci ancora e un esserci già stato. Perché il tempo comico di Totò non è solo – come è stato da più parti rilevato – il tempo della divagazione, o il tempo del differimento. È anche, soprattutto, il tempo dello sperpero di energie, tempo dello spreco, tempo del deragliamento da compiti precisi. Rispetto a un rapporto di tempo di tipo razionale  e funzionali stico, dove ogni dettaglio è finalizzato al progredire dell’azione, il tempo si disperde, rincula su stesso, si inebria nella ripetizione di atteggiamenti, regredisce nella lallazione, gira a vuoto nel fraintendimento.

Tempo della dispersione, insomma. Dispersione di energie, programmi, idee. Come ha notato acutamente Escobar nella sua postfazione al libro su Totò, quello che Totò fa con il torso, le braccia, il collo, il mento, lo fa anche con il “linguaggio: lo distacca, lo devia, lo aliena. Allo stesso modo in cui i comportamenti si condensano fino a diventare astratti, così nel discorso fattosi puro ritmo si condensa e si astrae il senso.

Oggi, si intavolano nel governo cittadino, solo infinite discussioni sul nulla: dialoghi a base di ripetizioni, suoni onomatopeici, interiezioni vuote. Alcuni affermano, gli altri replicano. Cioè deformano o correggono, o precisano, e non si accorgono che complicano ulteriormente invece di semplificare e risolvere.

Inutili consigli comunali sul nulla che finiscono inevitabilmente con l’essere una fenomenologia della complicazione dispersiva di questa giunta: l’evidenza trasformata in enigma, la trasparenza in opacità. Ancora una volta, il dovere di ben reggere una città diventa dover avere (appannaggi sulla zona 165), un dover dare alla città diventa un dover avere, e il futuro che dovrebbe essere limpido e trasparente fa cortocircuito con un vecchio passato politico fatto solo di longa manus.

La giusta comunicazione ai nostri è difficile da gestire, come nella gag di Totò e Peppino nella scena con il ghisa milanese, dove l’insistita comunicazione della presunta disponibilità alla comunicazione blocca di fatto la comunicazione. La ricerca di chi lo sa cosa, annulla il messaggio: il tempo gira a vuoto e tutti perdiamo tempo e pazienza.

Insomma, se nel cinema di Totò se il tempo della dispersione sta nel testo e lo condiziona e produce l’effetto desiderato dal pubblico, qui a Bisceglie, ciò che dovrebbe essere il buon agire del governo cittadino, diventa dispersione che produce un effetto di campo negativo: il cittadino, sperimenta che il tempo che dovrebbe essere produttivo, diventa solo tempo perso, tempo cortocircuitato grazie a ritardi che producono vuoto cioè il “senza nulla a pretendere”. O come  quando i fratelli Capone insegnavano al nipotino come lanciare la pietra contro la finestra dell’abitazione di Mezzacapa: ‘Na femmena busciarda m’ha lassato, Aaaaaaaaahhhh” mentre il calesse, trainato da un mulo bolso, correva sulla strada.

PASQUALE STIPO

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